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Limiti e originalità del Fermo e Lucia

Il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, bensì come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell’autore[12]. Rimasto per molti anni inedito (sarebbe stato pubblicato solo nel 1915, da Giuseppe Lesca, col titolo Gli sposi promessi[13]), il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Anche se la tessitura dell’opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell’autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza e ultima scrittura dell’opera, crea un tessuto verbale ricco, ove s’intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere[14]. Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia l’autore definì la lingua usata «un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra di esse»[15], definita anche come buona lingua[16]. Oltre all’aspetto linguistico, che Manzoni maturerà per tutti gli anni ’20 e ’30 (fino alla stesura della “quarantana”), il Fermo e Lucia differisce profondamente da I promessi sposi per la struttura narrativa più pesante, dominata dalla suddivisione in quattro tomi[17] e dalla mancata scorrevolezza dell’intreccio narrativo, dovuta ai frequenti interventi dell’autore o alla narrazioni dettagliate delle vicende di alcuni protagonisti («una cooperativa di storie e “biografie”»[18]), specie della Monaca di Monza[12].

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